Da molto ero lontana dalla scena, (esiti pandemici a parte) in timido ascolto e rispetto delle trasformazioni che l’età scava nel mio corpo.
Anni passanti in cui esitavo a compiere il passo di fare dei passi per compiere un passaggio: mostrarmi.
Allora forse proprio il momento speciale che stiamo vivendo mi ha spinto, come istintivamente, a ri-addentrarmi in una pratica che ben conosco e che pur sento nuova. Una pratica fisica e non, che si è rivelata subito sensibile ad una vocazione che sentivo in me primaria: anelare al momento dell’incontro, del “muovermi” del fare teatro.
E facendolo non ho potuto prescindere da un segno fortemente personale: persona, cioè letteralmente “la maschera di un personaggio (attore)”, che ho tentato e non so ancora se vanamente, di scalzarmi dal viso. Così sono approdata su di un altro pianeta, trovandoci un’infinità di vita e di altre vite. Di tutte sarebbe valsa la pena raccontare e danzare i contorni: ne ho attraversate solo e curiosamente alcune convinta che nessuna donna è “ogni donna”. L’ho fatto con la forma che mi ha dato e mi dà questo tempo presente: d’argento, di quercia e di Venere.
Questo mio stare, questo mio essere è l’unico modo in cui sento svanire un po’ l’effimero che ci sopisce.
Sono qui tutta intera.
Mammifero agèe,
lento,
dal fare annodato,
che sa di incastro.
Sola e doppia,
immobile come l’acqua di un torrente che trema, sempre.